Mi
viene da partire dall'attualità. Da Felix Baumgartner e dal suo
salto da trentanovemila metri che a scriverlo in lettere fa quasi più
impressione che in numeri.
Io
l'ho visto in diretta quel salto. Ero in una piccola fiera a Milano
e, approfittando di un momento di calma, con i vicini di stand ho
seguito il live di questa pazzia, o impresa, o test scientifico, o
pubblicità estrema.
Ho
seguito, dicevo, tutte le ultime fasi della missione Stratos. Ho
visto la capsula Zenith (che sembrava una campana per la raccolta
differenziata, solo più tecnologica) salire ben oltre quanto ci si
aspettasse. Ho visto la stessa capsula fermarsi a quegli ormai famosi
trentanovemila metri. Ho visto Baumgartner slacciarsi la cintura come
se scendesse dall'auto dopo aver parcheggiato e invece affacciarsi su
quella che sotto sembrava una sfera di fango (era sospeso sul New
Mexico, stato americano non troppo famoso per il suo verdeggiare),
circondata da un alone blu che scompariva nel nero dello spazio fuori
atmosfera. Ho visto Baumgartner nella sua tuta da 250mila dollari
(con la visiera che però si appannava a ogni respiro come in un
qualsiasi casco da motorino) affacciarsi oltre il portellone e
guardare giù. L'ho visto fare il saluto che i militari rivolgono ai
propri superiori (avrà salutato il Signore?) e, subito dopo, l'ho
visto saltare.
Baumgartner
per due motivi. Il primo è che la decisione di aprire uno spazio
espositivo è un salto (metaforico) e lo è anche quello di Mario di
fare la sua prima mostra proprio qui.
Il
secondo sta nell'assonanza tra Baumgartner, il celebre austriaco
supersonico di cui prima, e Baumgarten, filosofo tedesco del
Settecento che è stato il padre (o padrino) della parola estetica.
Nel
1735 Alexander Gottlieb Baumgarten coniò il neologismo aesthetica
nella sua tesi di laurea “Meditazioni filosofiche su argomenti
concernenti la poesia”. La parola nacque dalla fusione, o crasi per
dirla con il termine giusto, della parola greca αἴσθησις
(simboli astratti per chi non ha fatto il classico), che significa
"sensazione", e del verbo αἰσθάνομαι (di nuovo
simboli astratti), ovvero “percepire”. Mettendo assieme le due
cose: "percepire attraverso i sensi".
Ecco.
Rimaniamo qui, nel terreno
della conoscenza non intellettuale ma viscerale e spontanea.
Quello
che mi piace dei lavori di Mario è proprio la loro spontaneità.
Sono schizzi in cui si vede la velocità del gesto sempre in bilico
tra controllo e perdita, ma in cui si può anche sentire l'eco di un
lungo viaggio (dopo tutto è nella natura dello schizzo tenere
traccia del movimento) che lascia intuire una provenienza remota ma,
in qualche modo, familiare. Una vicinanza nella lontananza creata da
immagini che si sostituiscono ai lemmi del dizionario e vanno oltre
le definizioni, lasciando la scoperta del loro significato alla
percezione di chi le guarda.
Una
libertà che è prima di creazione e poi di interpretazione, data dal
fatto che i lavori sono nati nell'attimo in cui quella era l'unica
cosa possibile da fare. In una limitata frazione di tempo dove non
c'è spazio per la meditazione, la mediazione, il ripensamento,
l'errore. Momenti di una purezza tale che non darà mai spazio al
rimpianto e che nessun giudizio potrà mai rovinare.
Credo
che questa giusta spontaneità sia la stessa che ha spinto Mario a
esporre i suoi lavori e che mi ha fatto decidere di aprire uno spazio
in cui insieme abbiamo trovato il giusto momento per saltare.
Un
po' come Baumgartner, perché questi sono i nostri trentanovemila
metri.
Nessun commento:
Posta un commento